La Corte d'Appello di Roma ha condannato il Ministero della Difesa a risarcire con 1 milione e 300mila euro i familiari di un militare italiano ammalatosi e deceduto dopo aver partecipato ad una missione in Kosovo tra il 2002 e il 2003 stabilendo che esiste con
"inequivoca certezza" il nesso di causalità tra esposizione all'uranio impoverito e tumori. Inoltre, la sentenza passata in giudicato sostiene che c'è altrettanta "inequivoca certezza" che i vertici militari delle Forze Armate sapevano dei rischi. Per l'Osservatorio Militare - che segue da un decennio l'argomento - la sentenza è "un macigno giuridico che si abbatte sul ministero della Difesa. Che rischia di schiacciare definitivamente ogni tentativo di confondere, nascondere la determinazione di chi ha voluto far luce e dare giustizia ai 317 militari morti e gli oltre 3.600 malati causati da una esposizione senza mezzi di protezione in zone bombardate da uranio impoverito". La sentenza della Corte d'appello di Roma riconosce ai familiari del militare deceduto per cancro, contratto in seguito al servizio ricoperto nella missione internazionale in Kosovo tra il 2002 e il 2003, il risarcimento di un milione di euro ai quali si aggiungono danni morali e danni per il ritardato pagamento. Ad oggi sono oltre 30 le sentenze a carico del ministero della Difesa, di cui la maggior parte ormai definitive, che danno ragione a militari italiani ammalatisi o familiari di militari deceduti. Sentenze che segnano la storia del cosiddetto caso "Sindrome dei Balcani" scoppiato nel 2001 con l'emergere dei primi casi di militari italiani ammalatisi o deceduti al rientro dalle missioni in Bosnia Erzegovina e Kosovo. I due Paesi erano stati bombardati dalla Nato, nel 1995 e nel 1999, con proiettili all'uranio impoverito, come emerse dalle mappe dei siti bombardati, rese pubbliche dalla Alleanza atlantica in diverse fasi temporali tra il 2001 e il 2003.
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